
In una decisione che solleva interrogativi profondi sul confine tra sicurezza pubblica e libertà di espressione, un tribunale di Berlino ha confermato il divieto di esporre bandiere e simboli sovietici durante le celebrazioni dell’8 e 9 maggio, giornate in cui si ricorda la sconfitta della Germania nazista. La motivazione ufficiale? Preoccupazioni legate alla pace pubblica e al conflitto in corso tra Russia e Ucraina.
La misura, imposta dalla polizia berlinese, bandisce non solo bandiere e uniformi dell’Armata Rossa, ma anche simboli come il nastro di San Giorgio, la “bandiera della Vittoria” sovietica, e persino il canto di canzoni di guerra dell’epoca. Un’associazione locale aveva presentato ricorso, definendo il divieto una limitazione indebita della libertà di riunione, in particolare per una commemorazione prevista al memoriale sovietico di Treptow. Ma la Corte Amministrativa ha respinto l’appello, mantenendo il provvedimento.
Immediata la reazione di Mosca, che ha definito il divieto “degradante” e “discriminatorio”, accusando la Germania di riscrivere la storia e cancellare il contributo fondamentale dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo. In effetti, la scelta tedesca pone un dilemma non secondario: è legittimo vietare simboli storici in nome della sensibilità contemporanea, o si rischia di soffocare la memoria e trasformare la censura in un atto politico?
La misura sembra voler evitare provocazioni e tensioni con la comunità ucraina e altri gruppi contrari all’aggressione russa. Tuttavia, includere elementi storici come canzoni o uniformi d’epoca, parte integrante del ricordo della seconda guerra mondiale, rischia di trasformare un momento di memoria condivisa in un atto di rimozione selettiva. In un’Europa che si proclama custode della memoria storica, il confine tra prudenza e revisionismo appare sempre più sottile.
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