Senza patria, sotto minaccia: milioni di afghani costretti a tornare sotto il regime talebano



Nel silenzio internazionale, Iran e Pakistan espellono oltre 1,4 milioni di afghani. Mentre il Paese sprofonda nella repressione, anche la Germania valuta accordi con i Talebani per facilitare i rimpatri.

Una nuova emergenza umanitaria si sta consumando ai margini dell’attenzione globale. Dall’inizio del 2025, oltre 1,4 milioni di afghani sono stati costretti a rientrare nel loro Paese. In gran parte non si tratta di rimpatri volontari, ma di espulsioni forzate da Iran e Pakistan. Molti tra loro avevano vissuto all’estero per anni, alcuni per decenni. C’è persino chi non ha mai conosciuto davvero l’Afghanistan.

A riportarli indietro non è una scelta, ma la paura. E ciò che li attende non è solo la povertà estrema, ma anche il regime dei Talebani, tornati al potere nel 2021 e oggi più repressivi che mai.

I dati delle espulsioni sono drammatici: In Iran, il governo ha fissato il 6 luglio 2025 come termine per l’espulsione dei circa 4 milioni di afghani irregolari presenti sul territorio. Solo tra il 1° giugno al 5 luglio, 450.000 persone sono già state rimpatriate. In certi giorni, anche 40.000 in sole 24 ore. In Pakistan, oltre 1,2 milioni di afghani sono stati espulsi da gennaio. Altri milioni rischiano di essere cacciati entro fine anno.

Secondo l’UNHCR, il numero complessivo dei rimpatriati nel 2025 ha già superato quota 1,4 milioni, e continua a crescere ogni giorno.

Chi arriva in Afghanistan spesso non ha nulla. I centri di transito ai confini sono sovraffollati, i rifugi improvvisati privi di acqua potabile, cibo, assistenza medica. Le famiglie vengono divivise, i bambini si ammalano. Il governo talebano, senza fondi né infrastrutture, è completamente impreparato ad accogliere un numero simile di persone.

L’UNHCR ha lanciato un appello urgente da 216 milioni di dollari, ma ad oggi è stato finanziato solo al 28%. “Questa è una bomba umanitaria. I ritorni sono massicci, ma non c’è nulla di pronto per accogliere questa gente”, ha denunciato un operatore umanitario della Mezzaluna Rossa afgana.

Per molti rimpatriati, il ritorno non è solo sinonimo di miseria: è una minaccia diretta alla propria incolumità.

I gruppi più vulnerabili sono:

  • Donne che hanno studiato o lavorato all’estero.
  • Ex collaboratori di ONG o delle forze occidentali.
  • Attivisti, giornalisti, insegnanti, soprattutto donne.
  • Minoranze etniche e religiose, come gli Hazara.

Molti sono già stati arrestati, minacciati o  spariti nel nulla. I Talebani mantengono schedature dettagliate: chi ha vissuto fuori o ha lavorato con “organizzazioni infedeli” è considerato un traditore.

“Mia sorella ha lavorato per una ONG in Pakistan. Due giorni dopo il nostro ritorno, è sparita. Nessuno ci dice dove sia”, racconta Hashmat, 27 anni, da Herat.

La situazione è ancora più drammatica per le donne. In Afghanistan oggi: Scuole e università femminili sono chiuse. Le donne non possono lavorare in uffici pubblici, ONG o aziende. In molte province non possono nemmeno uscire da sole.

Chi torna da un Paese in cui ha avuto educazione o libertà è punita due volte: come “immorale” e come “occidentalizzata”. Alcune vengono promesse in matrimonio forzato, come forma di controllo sociale.

Molti rimpatri sono avvenuti senza valutazioni individuali, violando il principio di non respingimento che è un principio fondamentale del diritto internazionale che proibisce di rimandare una persona verso un Paese in cui rischia persecuzioni, torture o trattamenti inumani o degradanti (sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951).

L’UNHCR ha chiesto una moratoria sui rimpatri verso l’Afghanistan. Ma sia l’Iran che il Pakistan stanno accelerando le espulsioni. In Europa, alcuni governi — come la Germania — stanno valutando addirittura se collaborare con i Talebani per facilitare i ritorni.

Mentre l’Occidente guarda altrove, una delle più gravi crisi migratorie del 2025 si sta consumando nel silenzio.

Milioni di persone vengono espulse, impoverite e traumatizzate. Vengono mandate in un Paese che non può garantire né sicurezza né dignità. La comunità internazionale tace, e molti governi sembrano più interessati a chiudere le frontiere che a salvare vite umane.

Il ritorno forzato degli afghani non è un rimpatrio. È un’espulsione verso instabilità, miseria e repressione. Per molti, non c’è una casa ad accoglierli, ma solo un regime autoritario, senza risorse, pronto a punire chi ha osato cercare la libertà altrove.

La domanda allora è questa: quanti altri afghani dovranno ancora pagare il prezzo della  indifferenza globale?

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