La struttura di al-Qaeda appare oggi composta da tre elementi.
Al-Qaeda sembra operare tramite un sistema di “franchising”: la leadership – che qualche esperto identifica ancora nell’area Afghanistan-Pakistan (Af-Pak), ma che sempre più appare affrancata da un quartier generale fisico – permette agli affiliati l’uso del nome o del “brand” e lascia condurre piuttosto indipendentemente le operazioni se queste avvengono mantenendo un certo standard ideologico.
Il primo elemento è la top leadership, il cuore dell’organizzazione, che pare girare ancora attorno alla figura del leader al-Zawahiri (dopo la scomparsa di Bin Laden), ma che sembra tuttavia avere compiti più ideologici che operativi, rappresentando il messaggio jihadista e la sua diffusione nel mondo. La leadership non pare dirigere direttamente le operazioni o i gruppi affiliati, ma piuttosto indica obiettivi, detta priorità e segnala opportunità alla rete più estesa. Al-Qaeda viene descritta dagli stessi teorici della jihad globale, come «un riferimento, una metodologia, una chiamata. Non è un’organizzazione e neppure un gruppo». Il noto studioso dell’islamismo radicale Jason Burke ha fatto notare come, dall’accezione di “base” della parola araba Qa‘ida, si sia passati a quella – pur corrente – di “regola”, intesa anche come codice comportamentale.
Il secondo livello è composto dai gruppi affiliati che hanno capacità di agire indipendentemente dalla top leadership. Separati dalla leadership questi gruppi potrebbero apparire come organizzazioni terroristiche convenzionali, con finalità prettamente interne al campo d’azione nazionale o regionale nel quale operano (per esempio il ritiro delle truppe straniere).
Il terzo livello è costituito da piccole cellule o individui che non hanno alcun legame o affiliazione formale con il network e che agiscono indipendentemente, sulla base di obiettivi della jihad globale. L’uccisione di Theo Van Gogh in Olanda, l’attentato del maggiore Nidal Hasan negli Stati Uniti o di Mohamed Merah in Francia, ma anche gli attentati di Madrid del 2004 e quelli di Londra del 2005, sono stati condotti all’interno di questa cornice, senza alcuna affiliazione tra i terroristi e al-Qaeda, e senza alcuno, oppure con minimo, addestramento del network terroristico. Il fenomeno è stato definito come leaderless jihad (jihad senza leader) o come individual jihad, perseguita attraverso un indottrinamento e sotto l’influenza della propaganda di al-Qaeda.
Il rapporto tra jihadisti e comunità locali ha acquisito negli ultimi anni una rilevanza particolare. Al-Qaeda sembra aver imparato dalle esperienze del passato: dove il network è riuscito a integrarsi con la comunità che la “ospita”, è riuscita a proliferare, trovare appoggi e coperture. Guadagnare il supporto popolare pare essere divenuto uno dei punti della strategia, in particolare nell’area nord-africana. Se certamente le “rivoluzioni” arabe non sono sorte sotto l’impulso delle forze radicali islamiche, è anche vero che queste si sono prontamente adattate al nuovo contesto, cercando di riempire il vacuum di potere creato dalla caduta dei regimi. L’opportunità era stata individuata fin dalle prime settimane di rivolte dalla leadership di al-Qaeda. L’instabilità politica, la porosità dei confini, la debolezza delle autorità centrali, l’incapacità delle stesse di controllare il territorio sembrano essere tutti elementi favorevoli al rafforzamento di al- Qaeda e di organizzazioni terroristiche emergenti.
L’attenzione al tessuto sociale locale appare evidente in un recente documento di AQIM (Al-Qaeda nel Maghreb islamico) ritrovato a Timbuctu (Mali) e firmato da Abdel Malek Droukdel, leader del gruppo. In questo documento, reso pubblico dalla Associated Press, si evidenziano gli errori compiuti, criticando per esempio la velocità con cui è stata imposta la shari‘a nel nord del Mali «senza tenere nella giusta considerazione l’ambiente, cosa che ha comportato il rigetto della religione da parte della popolazione locale». I gruppi terroristi sembrano quindi orientarsi verso una sorta di mimetismo sociale, calibrando i propri obiettivi all’interno dei contesti nei quali si stabiliscono e puntando a svolgere funzioni sociali e assistenziali in sostituzione degli stati falliti. Le Primavere arabe, in particolare, sembrano aver offerto ai movimenti jihadisti la possibilità di qualificarsi come interlocutori credibili, sia all’interno dei paesi sia all’esterno, divenendo riferimento delle organizzazioni salafite e wahabite del Mediterraneo e del Medio Oriente e di paesi come Arabia Saudita e Qatar, che rimangono tra i maggiori finanziatori. Spesso sono dediti ad attività tipiche delle organizzazioni criminali comuni, come il traffico di droga (cocaina in particolare), il traffico di armi, l’immigrazione clandestina e i rapimenti. Anche in questo caso la connessione con il tessuto locale è essenziale. Questo permette fonti di finanziamento costanti per la jihad globale e allo stesso tempo per le attività sociali e assistenziali sul territorio. I traffici illegali servono quindi a consolidare un rapporto di dominio-protezione sul territorio in cui l’organizzazione opera, simile a quello tipico delle mafie.
APR news
F Ipis, Dipartimento Affari Esteri, S. M. T. e A. V.
Categorie:Cronaca, Personaggi, Politica, Terrorismo Gruppi
Rispondi