L’età era indefinibile. Forse 55 o forse 60 anni. Di certo, mal portati. Addosso aveva un giaccone di pelle, legato stretto, stretto in vita. Al polso, un vistoso orologio d’oro. Che spiccava, anche a uno sguardo poco attento, come le capsule di copertura dei denti, scintillanti ogni qual volta la bocca s’incurvava in un severo sorriso.
Per due giorni ci siamo praticamente ignorati: sguardi rari, di sfuggita, fra una boccata d’aria e una sigaretta, fumata fra le dita intirizzite dal freddo pungente. In mezzo a una strada, appena di fronte all’ingresso secondario dell’hotel.
Il terzo giorno, però, si è rotto il silenzio. Quando sono scesa di sotto, per l’ennesima sigaretta, l’ho salutato. Lui mi ha risposto. Mi ha offerto un sorso di tè, bollente. Poi mi ha guardato e mi detto: “Io e te… siamo fratelli!”.
Lui si chiama Michael, un nome di battaglia, ed è uno dei capi di Pravni Sektor (*), gruppo radicale nazionalista paramilitare ucraino. Insieme ai suoi uomini, la seconda sera dopo il mio arrivo a Kiev, ha scelto proprio l’albergo dove alloggiavo per installare il proprio quartiere generale. L’hotel, dodici piani, sorge in punto strategico per osservare piazza Maidan, il cuore della rivoluzione ucraina. L’entrata principale, da giorni, è stata chiusa e nell’edificio si entra, attraverso le barricate, per un piccolo ingresso secondario.
Le forze di Pravni Sektor hanno fatto la propria comparsa in albergo nel cuore della notte. Erano più o meno le due, quando sono stata bruscamente strappata al sonno da un improvviso trambusto, che proveniva dai piani sottostanti. L’hotel era invaso da tantissimi ragazzi. Tutti giovani e incappucciati. Il giorno successivo, insieme ad altri giornalisti, sono stata spostata di stanza: il 5° e 6° piano erano occupati.
I combattenti, tutti giovanissimi, alcuni minorenni, di notte giravano indisturbati per l’albergo, il volto nascosto dai passamontagna, brandendo bastoni e scudi. Capitava di trovarli davanti all’ascensore, prima di vederli correre in piazza, contro le barricate.
Ottenuto il saluto del capo, tutto è stato più semplice. A poco a poco mi sono conquistata nuovi spazi di fiducia: la macchina fotografica, l’ho sempre tenuta da parte. Non ho scattato fotografie. Non ho fatto domande. Con la riservatezza, sono riuscita a stabilire un contatto.
L’organizzazione di Pravni Sektor funziona come una grande famiglia. Ai ragazzi, alcuni in arrivo anche da cittadine e paesi molto lontani dalla capitale, garantisce tutto: vitto, alloggio, trasporti. Nella bellissima chiesa di San Michele, in centro a Kiev, è stato approntato un ospedale, che si occupa di curare i feriti durante gli scontri. C’è anche un centro di reclutamento – uno dei tanti sparsi nel centro città -, un banchetto che organizza i trasporti per chi vive lontano, un press center e punto di distribuzione di vestiti, per chi ne ha bisogno. E’ allestita, infine, una mensa, dove i cittadini portano le materie prime per cucinare e preparare i pasti per le persone impegnate nella battaglia. Un’organizzazione perfetta.
Per le strade, nel cuore di Kiev, s’incontrano moltissimi giovani incappucciati, ma quelli di Pravni Sektor si sono autoproclamati “nuova polizia” e difensori della sicurezza. Il codice di abbigliamento e comportamento è rigidissimo: agli uomini, non è consentito portare orecchini. Chi lo fa, viene deriso e considerato una “femminuccia”. Durante una delle tante pause -igaretta, ho esclamato, per scherzo: «Sapete che in Italia molti ragazzi portano gli orecchini?». Di getto, la risposta: «Ma in Italia, sono tutti gay?».
Un giorno, mentre ero in piazza Maidan, mi sono fermata davanti una lunga coda di persone di diverse età. Erano tutti in fila per diventare volontari tra i combattenti per Pravni Sektor. Una ragazza si è avvicinata. «Le donne non sono ammesse», mi ha detto.
Il gruppo Pravni Sektor chiede di candidare alle elezioni presidenziali il proprio leader, Dimitrij Jaros: se così non sarà o di fronte a una sconfitta – dicono – siamo pronti a provocare disordini e a far scorrere altro sangue.
Nell’albergo la mia convivenza con Pravni Sektor è proseguita, per tre giorni, in modo pacifico. Il personale dell’albergo era sereno (eccetto che il guardarobiere e lustrascarpe, di origine congolese!), nonostante l’occupazione forzata, ottenuta dietro un’esplicita minaccia. «Se non ci fate entrare, incediamo l’albergo».
Quando incontravo i combattenti nei corridoi o davanti all’ascensore, o fuori, in strada, ci salutavamo e scambiavamo qualche parola. Alcuni di loro, fumando davanti all’ingresso, a volte intonavano, con orgoglio, canti fascisti.
Quando ho dichiarato che stavo per partire alla volta della Crimea, di fronte a me ho visto facce sconvolte. Erano preoccupati, per la mia sicurezza. Una reazione che non mi aspettavo. Il vecchio capo, con l’aspetto da nazista, mi ha detto, a mo’ di battuta: «Anche noi andremo in Crimea. Per uccidere tutti». Ho finto di non capire.
Prima di partire per Sinferopoli, mi hanno presa da parte. Mi hanno spiegato come dovevo comportarmi e chi potevo contattare, in caso di bisogno. Mi hanno fatto entrare, in via eccezionale, nel quartiere generale, il cui accesso è solitamente proibito. Davanti alla porta, due persone armate stavano di guardia: dentro era in corso una riunione dei vertici, per decidere come organizzare la difesa di Kiev e rispondere a un eventuale attacco per parte russa. Per i corridoi dell’albergo, era tutto un via e vai di uomini armati fino ai denti.
Michael è entrato nella stanza protetta. Poi è uscito e mi ha detto: «Due guardie del corpo ti scorteranno in Crimea e l’organizzazione ti garantisce vitto e alloggio». Una proposta scioccante. Ho gentilmente rifiutato, con la scusa che tutto era già prenotato e pagato dall’Italia. Al piano di sotto una giovane donna mi ha dato altri numeri da contattare in caso di bisogno, consigliandomi di nascondere la scritta “press”, ben visibile sulla mia giacca perché «in Crimea è pieno di cecchini, che come primo obiettivo hanno quello di colpire la stampa e i medici».
Quando, tre giorni dopo la mia esperienza a Sinferopoli, sono passata dall’albergo di Kiev a recuperare le mie cose, prima di tornare in Italia, ho visto molti visi sollevati. Penso che in molti avessero scommesso su una mia brutta fine, nelle mani dei russi. Prima di partire per l’aeroporto, Michael mi ha intimato: «Non partire. Devi rimanere a Kiev. Ora inizierà la vera battaglia. Ora accadranno fatti interessanti». Oggi, nel silenzio della mia casa, la sua voce non smette di rimbombarmi nelle orecchie.
(*) Pravni Sektor è un gruppo radicale nazionalista paramilitare ucraino, che si è formato alla fine del novembre 2013 a Kiev. Si tratta di un’alleanza di un certo numero di gruppi dissidenti nazionalisti e di estrema destra. Pravni Sektor non aderisce al partito nazionalista più grande dell’Ucraina, Svoboda, perché ritiene quest’ultimo troppo liberale e conformista.
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Fonte il fatto quoridiano
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