Siria – Turchia: L’ospedale clandestino degli ex combattenti

PH © Andreja restek / APR NEWS Turchia, Rahyanli

 

Arrivata a Reyhanli, mi accolse un signore gentilissimo, proprietario di un modesto negozio di elettronica.

Il mio nuovo “amico” cammina con il bastone e zoppica, e più tardi mi ha raccontato che questo era stato un regalo che gli hanno fatto i guardiani nella prigione di Homs.

Mohamed fu arrestato dopo una dimostrazione e messo in una prigione militare per due mesi, dove è stato picchiato e torturato.

Il suo setto nasale è stato rotto e non sente più né odori né gusti, gli hanno spezzato una gamba che è diventata più corta, per cui adesso fatica a camminare.

Io lo ascoltavo e non vedevo odio nei suoi occhi, mi raccontava tutto questo come se fosse una cosa normale, forse perché molte altre persone hanno subito questi trattamenti disumani. Probabilmente questa reazione è una sorta di autodifesa per riuscire a sopravvivere.

Adesso vive in questa cittadina turca al confine con la Siria, è sposato ed è papà di un bambino di sedici giorni, e cerca di dimenticare.

Ho sentito delle storie su di un ospedale che si occupa e si prende cura degli ex combattenti siriani – FSA, mujahedin e molti altri – è vero?” gli chiesi. “Sì”, mi rispose, “vorresti andarci?”. Io non aspettavo altro, avevo sentito questa storia qualche giorno prima ma volevo capire di che cosa si trattasse, e il mio nuovo amico era disposto ad accompagnarmi.

Ci siamo incamminati nella parte della città in costruzione, molte case finite e tante altre da finire, ma già abitate. Per la strada s’incontravano soprattutto famiglie siriane. Donne che preparavano cibo, bambini che giocavano o lavoravano, uomini che costruivano e trafficavano. Una periferia con tanta fretta di crescere.

Dopo un po’ siamo arrivati davanti ad una casa privata, che tutto sembrava tranne che un ospedale: un piccolo cortile con gli alberi, qualche scalino e l’entrata come in qualsiasi altra abitazione, dopo la quale sei convinto di trovare una famiglia.

Invece ti rendi conto subito che ti trovi in una specie di ospedale o clinica per la riabilitazione.

C’erano più stanze, e mi hanno fatto accomodare in una dove c’erano più letti con diverse persone, una specie di dormitorio.

Entrando notai subito due ragazzi, entrambi con la barba lunga, ma senza gambe.

La stanza era piena di letti, vi era giusto lo spazio per passare tra un letto e l’altro e c’erano 7/8 persone che dormivano. Mi hanno invitato a sedermi su uno dei letti, ero un po’ imbarazzata perché mi sembrava di invadere la loro privacy, privacy di persone che soffrono, ma loro hanno insistito ed io mi sono seduta. Egoisticamente ero molto felice per questo, il fatto di poter vedere e fotografare certe realtà, è il motivo per cui sono venuta.

Ho grande rispetto per la sofferenza altrui e credo che certamente dobbiamo testimoniare l’accaduto, raccontare le storie; è il nostro lavoro, ma serve il massimo rispetto e la più grande delicatezza.

I due ragazzi con la barba lunga mi chiesero di non essere fotografati in viso, avrei potuto far loro le foto solamente ai corpi: non erano ancora pronti a far vedere al mondo ciò che era loro accaduto, le ferite – dell’anima più che del corpo – erano ancora troppo profonde.

L’ospedale è gestito e finanziato dal nuovo governo siriano, e il direttore è un medico che contribuisce anche economicamente al funzionamento. I pazienti ricevono un letto dove dormire e il cibo, ma non viene dato loro denaro. Alcuni di loro, che stanno meglio, sperano di mettere insieme qualche soldo per tornare dalle famiglie che si trovano ancora in Siria. Oltre agli ex combattenti, nella struttura sono ospitati anche dei civili.

Un paio di loro hanno voluto raccontarmi la loro storia.

Ahmed – Damasco

Ahmed è stato in prigione 1 anno e 7 mesi. Ha partecipato a una dimostrazione che chiedeva condizioni di vita migliori, una dimostrazione pacifica che gli ha portato via quasi due anni della sua vita.

Si è alzato tirando su la maglietta e mi ha fatto vedere una grande cicatrice sulla schiena, dicendomi che questa, e tutte le altre cicatrici, erano conseguenze delle torture subite in carcere.

Non è voluto entrare nei particolari ma non ce n’era bisogno, bastava guardarlo negli occhi per capire quanto dolore e quali cose terribili avesse vissuto.

Mi ha raccontato che insieme a lui c’erano 700 prigionieri, rinchiusi nella prigione di Damasco.

Dopo la grande offensiva 350 di loro sono stati liberati, 100 uccisi e tutti gli altri di nuovo arrestati dal governo per poi essere uccisi subito o rimessi in prigione.

Anche suo figlio ha perso la vita, mentre il resto della famiglia si trova ancora a Damasco e Ahmed ha loro notizie e stanno tutti bene.

Spera di guarire completamente e di mettere in fretta insieme un po’ di soldi per tornare da loro. La strada fino a Damasco è lunga, pericolosa e i trafficanti chiedono tanto denaro per riportarlo indietro. Per adesso deve aspettare.

Come purtroppo accade in ogni guerra, ci sono dei personaggi loschi che vivono e si arricchiscono sulle disgrazie altrui.

Abu Husin – Hama

Abu Husin è un ragazzo giovane, non ha più di 25 anni. Un cecchino gli ha sparato in testa e i medici l’hanno dichiarato morto e messo nella cella frigorifera insieme a tutti gli altri cadaveri. Poco dopo, portando un altro cadavere nella cella, una ragazza si è accorta che Abu Husin muoveva un dito. Questo piccolo movimento quasi invisibile e quella ragazza che lo vide con la coda dell’occhio, salvarono la vita ad Abu Husin.

Il medico gli praticò subito un elettroshock e riuscì a riportarlo in vita.

Con l’ambulanza, dopo averlo stabilizzato, lo portarono in Turchia, dove subì diversi interventi chirurgici. La parte destra del corpo è rimasta paralizzata, fatica a parlare e gli manca una parte del cranio, ma è vivo. Sta in quest’ospedale, cerca di recuperare le forze e ricominciare una nuova vita, sperando di dimenticare la guerra. Raccontandomi la sua storia sorrideva tutto il tempo, un sorriso bello, anche se leggermente deformato dalla paralisi. Sorrideva e raccontava, contento di essere ancora vivo.

Queste due storie sono simili a tante altre che si sentono, di prigioni, cecchini, torture. Storie di guerra, storie in cui gli esseri umani tirano fuori la peggior parte di sé. Quella parte che non crediamo che possa esistere.

Ma sono anche storie che dimostrano la forza dell’uomo e quanto un essere umano può sopportare, e che nessuna guerra né tortura potrà mai uccidere la speranza.

Quando parli con questi ragazzi, ti accorgi di una cosa bellissima: loro ancora sperano in un futuro migliore.

Apr news

Andreja Restek

 

 

FOTO GLLERY

 

 



Categorie:Esteri, Politica

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