Hamza è un ingegnere di 31 anni, di cui gli ultimi due passati nelle prigioni
siriane di Assad. Il motivo del suo arresto è stato il possesso di libri
“sospetti” e la presenza di alcuni poster in casa che potevano ricordare o
istigare “pensieri rivoluzionari”.
E’ proprio così: basta un libro sospetto o un poster, che noi in occidente
usiamo per abbellire le nostre abitazioni, per finire in galera. A questo
ragazzo sono costati due anni – terribili – di vita.
Quando l’ho incontrato, era uscito dalla prigione da appena una settimana. Con
l’aiuto di alcuni amici è riuscito a passare la frontiera e ad arrivare in
Turchia.
Si vede, si percepisce tutto il dolore che ha passato, ma non la rabbia,
probabilmente perché è nascosta nel profondo.
Più volte inizia a raccontare la sua storia, e più volte si ferma cambiando
completamente discorso. Inizia parlando del passato, quando viaggiava per
lavoro e andava in Cina e in altri Paesi, tutto per il governo che poi lo ha
arrestato.
“Nella cella, che era 5×5, eravamo in 10 e ho visto tanti miei compagni
morire. Eravamo sempre nudi, eccetto che per uno straccio che copriva le parti
intime. Ogni settimana dovevamo stringere questi stracci sempre di più per non
perderli, perché diventavamo sempre più magri.
C’era un mio compagno di cella che quando è arrivato pesava 80 kg e due mesi
dopo pesava non più di 30 kg. Ho visto come si spegneva lentamente e non ho
potuto fare niente.
In prigione ho conosciuto persone che non hanno un briciolo di umanità: non
credevo potesse esistere qualcuno così, ma ho visto e vissuto sulla mia pelle
orrori che non puoi immaginare.
Chiedevamo alle guardie di far qualcosa per il mio amico che stava male ma
l’unica risposta erano le botte, tante botte. Tutti abbiamo subito delle
torture. Ci usavano e ci picchiavano come sacchi da boxe, ci mettevano
elettrodi sui genitali e poi ci davano forti scariche elettriche. Il
divertimento più gradito per loro era quando andavamo in bagno, cosa consentita
due volte al giorno. Dovevamo camminare lungo un corridoio dalla cella al
bagno, che distava 30 metri, seguendo una linea, mettendo un piede davanti all’
altro con le mani dietro la schiena e la testa china. Se sbagliavamo e un piede
usciva leggermente oltre la linea, prendevano i bastoni e ci picchiavano fino
allo sfinimento.
Per alcuni, come per il mio amico che alla fine pesava 30 kg, era quasi
impossibile rispettare questa regola, e le botte erano giornaliere.
Dopo poco il mio amico ci lasciò e, mentre stava morendo, gli promisi che
avrei trovato la sua famiglia per raccontar loro che era morto coraggiosamente,
e alla fine si spense con il sorriso sulle labbra. Cos’altro potevo fare?
Mi ricordo perfettamente nomi e cognomi dei miei torturatori, me li ricordo
tutti e non li dimenticherò mai”.
Io lo ascolto e rivivo con lui queste terribili sofferenze, si vede che
ritorna al passato quando mi racconta tutto questo, torna in quella maledetta
prigione in mezzo ai suoi aguzzini.
Si ferma un momento a pensare, poi mi dice che mi racconterà solamente un’
ultima storia, perché oltre non se la sente. Si vede che fa fatica a parlare di
certe cose ma continua, forse perché sa che dopo questa giornata non ci vedremo
più.
“C’era un altro prigioniero con me, lo chiamavamo il gigante. Era alto quasi 2
metri, quando è arrivato era molto preoccupato per la famiglia, voleva far loro
sapere che stava bene, che era vivo. Questo era il suo unico pensiero.
Un giorno le guardie entrarono in cella e cominciarono a picchiarci, si
accanirono soprattutto con lui. Lo colpirono in testa e lui perse i sensi. Il
giorno dopo la sua faccia cominciò a gonfiare e in pochi giorni la sua testa
sembrava un pallone, tutta gonfia. Vicino all’orecchio c’era una ferita che
aveva provocato questo strano gonfiore. Non sapevamo cosa fare perché sembrava
che la sua testa sarebbe scoppiata da un momento all’altro. Chiamai e richiamai
le guardie ma oltre alle botte non ci fu nessun’altra risposta. Dopo una
settimana circa, la ferita scoppiò e ne uscì un liquido maleodorante. Provammo
a chiamare di nuovo le guardie, rischiando come sempre le botte, ma la puzza
nella nostra cella, che era senza finestre, era insopportabile e date le
condizioni igieniche nelle quali ci trovavamo, avevamo paura di ammalarci anche
noi.
Mi concessero di accompagnare il mio amico in bagno ma solamente per un
minuto. In quella situazione m’improvvisai medico e decisi di schiacciargli la
testa per far uscire quel liquido puzzolente. Non so esattamente la quantità di
pus che uscì, ma era tanto e lentamente la sua testa iniziò a riprendere la sua
forma naturale.
Mi chiedevo quante cose un essere umano può sopportare e come avesse fatto a
non morire.
Dopo pochi giorni, però, cominciò a perdere pezzi di pelle dal viso. Riuscivo
a vedere i suoi muscoli e i denti. I pidocchi e altri animali trovarono un
perfetto nascondiglio nella carne del mio amico che, dopo tante sofferenze,
morì. Purtroppo non riuscì mai a contattare la famiglia”.
Hamza dopo un po’ smette di parlare. Dopo un lungo silenzio, in cui tutte le
domande sarebbero superflue, ricomincia a raccontarmi del suo lavoro come
ingegnere e dei suoi viaggi in Cina.
Sicuramente tutte quelle cicatrici che ha su ogni parte del corpo – e dell’
anima – gli ricorderanno per sempre i suoi aguzzini.
Apr news
Andreja Restek
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