Serbia-Ungheria: In viaggio per la libertà

Refugees, ph © Andreja Restek, Hungary, Serbia

Refugees, ph © Andreja Restek, Hungary, Serbia

Dopo la notte passata nella tendopoli improvvisata dal governo serbo a temperature scese drasticamente e sotto una pioggia battente, una quindicina di ragazzi e uomini provenienti da Iraq e Siria ha deciso di incamminarsi lungo le rotaie verso l’Ungheria. È un gruppo molto vario, comprende tutti i ceti sociali: dallo studente, al professore di fisica con tanto di dottorato, che si rifiuta di insegnare la sua materia secondo le imposizioni dei terroristi, all’impiegato. Per pagare il loro viaggio le madri e mogli hanno venduto i doni ricevuti in dote. Quando uno dei poliziotti consiglia loro di prendere un taxi, rifiutano dopo la brutta esperienza che hanno avuto a Belgrado, dove si sono ritrovati vittime di un’estorsione fatta in accordo tra il tassista e un poliziotto che li ha minacciati di rimandarli in Macedonia.

Hanno volentieri accettato che una fotoreporter si incamminasse con loro. Dopo circa tre quarti d’ora di cammino a ritmo serrato lungo i binari, aumentano ancora il passo, perché si avvicinano ad un punto in cui i trafficanti spesso hanno chiesto soldi ai rifugiati. Dalle rotaie scendono nei campi, camminando fradici, sotto la pioggia incessante, fino ad entrare nei boschi, dove camminano tra rami e rovi. Attraversano strade strette e infangate. La consistenza del fango cambia avvicinandosi al fiume, dove diventa sempre più denso e spesso, e le scarpe sempre più pesanti. Marciano in condizioni estreme, alcuni hanno ai piedi solo le ciabatte, altri indossano pantaloncini corti. Continuano a camminare, ogni tanto qualcuno canta a bassa voce. Nonostante le condizioni atmosferiche pessime, la stanchezza tremenda, quando il gruppo cerca di capire da che parte andare nel bosco, i più giovani si scattano selfie ridendo. Nei momenti in cui percepiscono un possibile pericolo il silenzio è assoluto. In 8 ore di cammino si concedono solo 5 minuti di pausa per bere un po’ d’acqua e mangiare un biscotto. Si prendono cura della fotoreporter che li accompagna per tutto il tragitto con un atteggiamento di grande protezione. Quando arrivano al fiume Tisza, si assicurano che tutti sappiano nuotare, ma fortunatamente non hanno bisogno di inzupparsi ulteriormente, perché riescono a trovare un passaggio per attraversare. Una volta arrivati sulla riva opposta, alcuni pensano di essere in Ungheria: non è così, mancano 500 metri. Una distanza breve che, impossibile da percorrere in linea retta diventa enorme. Il percorso è sempre più arduo, tra dirupi e strade sterrate rese scivolose dalla pioggia e dal fango. Quando finalmente arrivano al confine, uno di loro un po’ ingenuamente chiede ai poliziotti ungheresi se possono passare. La risposta è un secco no. Dopo un’intera giornata passata a camminare in condizioni estreme e disumane, con alle spalle già altre migliaia di chilometri, tutta la fatica è stata inutile. I poliziotti ungheresi, offrono loro dell’acqua e gli dicono che possono portarli al campo profughi dove gli verrano prese le impronte digitali. Rifiutano l’offerta e decidono di tornare indietro, lungo la strada a ridosso del confine. Quando capiscono è davvero finita, un ragazzo che non ha mai parlato, dice: “Sembravamo Rambo, ma abbiamo perso”. Salutando la fotoreporter che li ha seguiti tutto il giorno condividendo con loro ogni sensazione dalla fatica alla paura, le chiedono: “Dove vai adesso?”. Risponde che sarebbe andata in Ungheria, “Già, tu sei libera…”, le dicono.

Poi alcuni di loro iniziano a canticchiare e il gruppo, fino a quel momento sempre compatto, rallenta il passo mentre si avvia verso il campo dal quale sono partiti.

Apr news

F C.M.



Categorie:Cronaca, Esteri, Personaggi, Politica

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