Trump e la CIA in Venezuela

L’ammissione del tycoon di aver autorizzato operazioni della CIA sul suolo venezuelano solleva gravi interrogativi sul rispetto della sovranità nazionale e sul ruolo degli Stati Uniti nello scenario geopolitico globale.

Con una nonchalance disarmante, Donald Trump ha confermato mercoledì di aver autorizzato la CIA a operare in Venezuela. Una dichiarazione che, più di qualsiasi analisi, mostra l’approccio spregiudicato e muscolare del presidente americano nei confronti della sovranità altrui. Dietro il consueto linguaggio diretto si cela una realtà ben più preoccupante: la sistematica violazione del diritto internazionale e la riaffermazione di una visione del mondo in cui Washington si arroga il diritto di decidere chi deve governare in America Latina.

Non va dimenticato che il Venezuela possiede i giacimenti petroliferi più grandi al mondo, una risorsa strategica che da sempre attrae l’interesse delle potenze straniere. Il controllo di queste immense riserve energetiche rappresenta una delle chiavi del conflitto geopolitico: dietro le motivazioni ufficiali spesso si nasconde la volontà di assicurarsi l’accesso a un patrimonio naturale che potrebbe ridisegnare gli equilibri globali dell’energia.

Trump ha giustificato l’azione della CIA sostenendo che il Venezuela “ha svuotato le sue prigioni negli Stati Uniti” e che il paese “inonda l’America di droga”. Argomentazioni fragili, che riecheggiano i toni allarmistici e semplificatori con cui Trump ha spesso affrontato questioni di politica estera. Più che una strategia di sicurezza nazionale, le sue parole sembrano una mossa propagandistica, tesa a rafforzare la propria immagine di “uomo forte” capace di agire senza esitazione, anche al di fuori delle regole.

Il problema, tuttavia, è che tali “regole” non sono semplici convenzioni politiche: rappresentano i pilastri della convivenza internazionale. Autorizzare operazioni letali della CIA in un altro Stato, senza il consenso del governo legittimo, costituisce una violazione flagrante della sovranità venezuelana e della Carta delle Nazioni Unite. Un atto che riporta alla mente i periodi più bui dell’interventismo statunitense, quando la “difesa della libertà” serviva da pretesto per destabilizzare governi non allineati, spesso con un occhio ai tesori naturali che quei paesi custodivano.

Non è la prima volta che Trump agisce in questa direzione. Già durante il suo primo mandato, aveva imposto sanzioni economiche durissime contro Caracas, spingendo l’economia venezuelana sull’orlo del collasso e aggravando la crisi umanitaria. Oggi, con la conferma di queste operazioni segrete, il confine tra pressione diplomatica e guerra clandestina appare sempre più labile.

Dall’altra parte, Nicolás Maduro ha reagito con durezza, accusando Washington di tentare un colpo di Stato e dichiarando che l’esercito venezuelano è pronto a difendere il paese da una possibile invasione. Dichiarazioni che, seppur impregnate di retorica, non nascondono un pericolo reale: quello di un’escalation militare in una regione già fragile.

Il comportamento di Trump, dunque, non è soltanto un affronto alla sovranità venezuelana, ma rappresenta un campanello d’allarme per la comunità internazionale. Permettere che un leader di una superpotenza agisca unilateralmente, al di fuori del diritto e del dialogo diplomatico, significa accettare un mondo dominato dalla forza, non dalla legge.

In definitiva, l’ammissione di Trump non è una gaffe politica, ma la rivelazione di una mentalità: quella secondo cui gli Stati Uniti possono ancora comportarsi da poliziotto globale, ignorando i confini, le istituzioni e la volontà dei popoli. Un’idea pericolosa, che rischia di alimentare nuove tensioni e di minare ciò che resta dell’ordine internazionale basato sul rispetto reciproco e sulla sovranità nazionale.

Apr news 

Andreja Restek 



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